di Luca Stanchieri
“A Luca, Pietro Mennea”: mi ritrovo a leggere la dedica del suo libro subito dopo i funerali a Roma. E ne sono onorato. Ho avuto la fortuna di incontrarlo, di stringergli la mano e scambiare alcune frasi in una libreria di Roma, insieme a centinaia di persone venute a conoscerlo. Mennea è rimasto nel cuore di tutti noi, che da bambini ci canzonavamo dicendo: “Ma chi sei? Mennea?”. Il Dott. Mennea, please.
Mennea è l’incarnazione di una vita di sacrifici e di allenamenti all’avanguardia. Non nasce dotato di talento naturale. Adolescente insicuro, pauroso, scontroso si misurava correndo con un compagno di classe, Pallamolla, che lo batteva sempre. Alberto Autorino, che aveva rinunciato a fare l’avvocato per insegnare educazione fisica e atletica a tempo pieno, lo notò e gli consigliò di venire al campo di atletica per allenarsi e disputare i campionati provinciali studenteschi. Fu lui lo scopritore primo del suo potenziale talento. Le strade dei campioni sono ricolme di maestri che ne individuano le promesse scorgendo tesori nascosti che nessun altro vede. Sono persone che quando le incontri ti cambiano la vita.
Autorino lo fece diventare un velocista. I suoi genitori non lo agevolarono, ma nemmeno si opposero. Lo lasciarono fare. Il che era un’enormità per l’epoca. Non c’era cultura sportiva a Barletta né possibilità economiche da investire. La loro “neutralità” permise al giovane di sentirsi libero di scegliere, facendo dell’atletica un’epica impresa di riscatto sociale.
Se Autorino lo scoprì, Vittori fu quello che lo allenò ai massimi livelli mondiali. Carlo Vittori, da Ascoli Piceno, è un ex velocista che fondò l’allenamento su basi scientifiche e lo sperimentò su e con Pietro Mennea.
C’era un nodo teorico metodologico a cui rispondere. I migliori velocisti sono sempre stati più alti e più forti di Mennea. Il primo riferimento fu Borzov. 195 centimentri contro 179, falcata media di 2, 60 contro 2,34, 80 kg contro 69. La questione teorica, scientifica e metodologica era: l’allenamento può sopperire a una minore qualità di partenza? Può compensare una differenza genetica di base?
Una volta durante una conferenza, Vittori mostrò le tabelle di allenamento a cui sottopose Mennea. Alla fine della sua esposizione uno studente, con aria seriamente preoccupata, gli chiese: “Ma l’uomo che ha svolto tutti quegli allenamenti, è ancora vivo!?”.
I principi di allenamento si fondavano su metodi scientifici: sia Mennea che Vittori avevano un diario di allenamento dove trascrivevano quotidianamente esercizi e risultati; al lavoro, ai sacrifici, alla forza di insistere coniugavano l’audacia degli sperimentatori. Insieme svilupparono una scienza maturata su loro stessi, sapendo che per migliorare e rimediare agli errori avrebbero osato commetterne di nuovi. Mennea, al ritorno degli allenamenti, anche se stravolto e divorato dall’acido lattico, procedeva ad annotare in modo dettagliato tutti i suoi allenamenti, per confrontarli con le stagioni precedenti.
La velocità veniva scomposta in fattori primi: i blocchi con le tecniche di partenza e attenzione allo sparo, accelerazione da fermo, tecnica di corsa in curva, resistenza alla velocità, cambi della staffetta, tecniche di corsa su rettilineo, tensione muscolare, misurazione in centesimi dei tempi sui 60, 80, 100, 200, 300, 400 metri. Persino le smorfie di Mennea venivano sottoposte al vaglio dell’allenatore. Il collo, lo sguardo, la mascella contratta erano per Vittori un dispendio di energia che doveva essere distribuita laddove ce n’era bisogno. Ogni elemento che poi ricomponeva la perfomance della corsa veniva allenato con costanza quotidiana per tutto l’anno, attraverso una programmazione meticolosa. Ogni singolo ingranaggio veniva curato per costruire nei dettagli il motore finale. A fare da punto di riferimento, c’erano sempre gli obiettivi. Gli appuntamenti dell’anno erano il faro lontano che indicava la rotta e la meta. La velocità è una dimensione dilatata. Impossibile valutarla con il metro di tutti i giorni. I centesimi sono ore, i centimetri chilometri. Quando si è in gara, centesimi e centimetri si trasformano in distacchi abissali impossibili da recuperare a uno che precede con la stessa velocità. Gli obiettivi di miglioramento, misurati nelle dimensioni microscopiche, diventano “un gancio appeso in mezzo al futuro che sostiene i sacrifici, diluisce la fatica, anestetizza il dolore conseguente a certi, inderogabili, carichi di lavoro, accorcia la desolazione dell’inverno, allontana le paure, riempie di attesa la solitudine del riposo e fornisce una risposta accettabile tutte le volte che il dubbio s’insinua nella mente, quasi sempre sottoforma della domanda: ma chi te lo fa fare?”.
Ci si allenava a Natale, a Pasqua e Capodanno se era necessario. I carichi previsti aumentavano se Mennea non ne risentiva. Migliaia di giorni passati da solo, come un monaco dedito esclusivamente al culto della felicità. In pista sia la mattina che il pomeriggio, per un totale che variava dalle 6 alle 8 ore. Come casa una stanza d’albergo a Formia, come famiglia i camerieri. I risultati?
I record li conosciamo tutti. Ciò che invece pochi sanno è che Mennea è riuscito a disputare quattro finali di seguito e tutte sulla distanza dei 200 metri ai giochi olimpici. Nessuno finora può vantare una longevità atletica così alta e una tenacia così prolungata. Alla fine del 1980, prendendo i primi cento risultati elettronici, Mennea è presente 30 volte; il secondo con 10 volte è Don Quarrie. Ai campionati Europei ha vinto tre titoli, due d’argento e uno di bronzo, un argento e un bronzo ai mondiali, un oro e due bronzi alle olimpiadi. Ha disputato 528 gare, e vestito per 52 volte la maglia della nazionale.
Con la stessa tenacia, Mennea ha preso 4 lauree: Scienze politiche, Giurisprudenza, Lettere e Scienze dell’educazione motoria.
A differenza di Vittori, che considerava l’aspetto mentale di un’atleta e la relazione umana atleta-allenatore come una debolezza, Mennea comprendeva che l’allenamento delle forze interiori era tanto importante quanto quello dei muscoli. “Il mio obiettivo era cercare dentro di me il senso di rivalsa che si fa grinta, voglia e bisogno di picchiare i piedi sulla pista con tutta la forza, la determinazione e la rapidità che già accumulavo dentro. Ragionavo come un pugile: per combattere pensavo di dover tirare fuori la rabbia che sentivo in me”. In termini tecnici si chiama Individual Zone of Optimal Functioning (IZOF), che è la zona emotiva dentro la quale l’atleta dà il meglio di sé sul piano della perfomance agonistica. Nei suoi diari, Mennea riportava sempre anche l’umore, perché pensava che lo stato d’animo influenzasse l’allenamento quanto un problema fisico. E sentiva che era vero anche l’opposto: un sovrallenamento poteva portare il fisico a risentirne a tal punto da condizionare la mente. Ancora nel 1980, nessuno si preoccupava del disagio psicologico che si accumulava nei mesi dell’allenamento intenso. Vittori non valutava questo aspetto come fondante della prestazione. Così, quando prima di un’Olimpiade Mennea decise di andare a Barletta per salutare i suoi e poi partire, Vittori si oppose come se l’atleta mostrasse un’inammissibile debolezza.
Oggi sappiamo che esiste una combinazione fra allenamento ottimale per la prestazione sportiva e obiettivi affettivi o di competenza extrasportivi. Combinare lo sport con obiettivi altri (dalla scuola al lavoro) incide positivamente sull’attività sportiva perché crea maggiore fiducia, autoefficacia e fornisce quello stimolo mentale necessario a un allenamento lungo e faticoso. Ed è vero anche il contrario. Il manager di una banca mi diceva come la preparazione di una maratona avesse inciso positivamente sulla sua concentrazione e produttività al lavoro.
Anche da questo punto di vista Mennea è stato un pioniere. Comprendeva che le risorse mentali erano determinanti. Nel mondo dello sport di alto livello servono anche a fronteggiare giochi e balletti politici di federazioni e classi dirigenti che, troppo spesso, pensano al potere e al business trascurando gli atleti. Un ostacolo che va oltre la competizione e che spesso distoglie, distrae, se non addirittura deprime lo stato di concentrazione di un atleta che deve gareggiare ai massimi livelli.
Il dott. Mennea è stato dunque un eroe sportivo, un pioniere scientifico e un punto di riferimento umano complessivo, pur con tutti i suoi difetti e le sue incertezze. Lo salutiamo con affetto promettendogli che come coach e come persone non smetteremo di apprendere dalle sue straordinarie vittorie e dalle sue simpatiche debolezze.
Roma. 29 marzo 2013
Bibliografia
Mennea P. P. (2012), La corsa non finisce mai, Limina