di Stefano Massari – Coach Partner della Scuola Italiana di Life & Corporate Coaching
Sono cinque i coach di cui Andre Agassi parla nell’autobiografia “Open”. Il padre Mike Agassi, Nick Bollettieri, Gil Reyes, Brad Gilbert e Darren Cahill. Di quest’ultimo, tuttavia, non ci occuperemo in questo articolo. Seguì Agassi dal 2002 al 2006, ma nel libro il suo ruolo risulta marginale rispetto a quello degli altri quattro.
Mike Agassi: talento e tormento
Il primo coach di Andre fu proprio il padre. Tra i tratti di Mike Agassi c’erano sicuramente una grande passione per il tennis, l’ossessione per la vittoria e una violenza profonda, quasi incontenibile. “Violento di natura, mio padre è sempre pronto alla battaglia. Si allena continuamente contro l’ombra. Tiene un manico d’ascia nella sua auto.”[1] La miscela di questi elementi ebbe sulla vita del figlio un impatto fortissimo, trasformandola negli anni in un percorso nel quale talento e devastazione risultano inscindibilmente connessi. Era ingegnoso, Mike. Fin dai primi anni di vita di Andre, inventò sistemi di allenamento molto particolari. Ad esempio, sopra la culla aveva appeso “… alcune palline da tennis, incoraggiandomi a colpirle con una racchetta da ping-pong che mi aveva fissato al polso con del nastro adesivo.”[2] Ma non si era limitato a questo. Aveva costruito lui stesso il campo da tennis sul quale allenava il figlio e trasformato la macchina lanciapalle in una specie di mostro. “Mio padre vuole che il drago troneggi su di me non soltanto per incutermi rispetto e ottenere la mia attenzione. Vuole che le palle che escono dalla sua bocca atterrino ai miei piedi come se fossero sganciate da un aereo. (…) Devo colpire ogni palla d’anticipo, altrimenti mi rimbalzerebbe oltre la testa.”[3] Insomma, più che una lanciapalle, quel drago era il simbolo del sistema che Mike Agassi aveva creato per allenare e insieme torturare suo figlio: un sistema mostruoso, minaccioso, in grado di plasmare uno dei giocatori d’anticipo più forti e più tormentati del mondo.
A suo modo, Mike Agassi allenava il talento. Senza avere letto Ericsson, aveva capito l’importanza della pratica intenzionale, pianificata e prolungata. Invece di parlare delle 10.000 ore, però, parlava di migliaia, anzi di milioni di palline. “Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno (…) Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile.”[4]
Ossessionato dalla vittoria, era concentrato soltanto sugli obiettivi che lui aveva in mente per il figlio, senza tenere nella minima considerazione la vera vocazione di Andre, vale a dire le sue passioni, le sue attitudini, la sua volontà.[5] “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta” scrive Andre[6]. Contava soltanto che il ragazzo vincesse, facendo esattamente quello che il padre gli chiedeva di fare. Senza errori, nemmeno i più piccoli. Qui emerge un altro lato di Mike Agassi che influenzò la carriera del figlio e che rischiò di interromperla in più di un’occasione. Il perfezionismo. Scrive Andre a proposito degli allenamenti con il padre: “Ogni colpo riuscito è dato per scontato, ogni colpo mancato scatena una crisi.”[7]
L’atteggiamento non cambia negli anni. Quando Andre, che ha appena vinto Wimbledon 1992, telefona al padre, lui anziché congratularsi lo aggredisce: “Non avevi alcun diritto di perdere quel quarto set”[8] Come dire: se non sei perfetto, non sei un campione.
Mike Agassi allenò suo figlio al perfezionismo per anni ed anni, incessantemente. Finché Andre fece totalmente suo il paradigma paterno. Per molto tempo questo gli impedì di confrontarsi con i propri limiti, il perfezionista rifiuta l’errore, di lavorarci e dunque di migliorare. In più di un’occasione, dopo una gara negativa, Andre pensò seriamente al ritiro. Alla ricerca perenne del colpo perfetto, perse molti più punti e molti più match di quanti avrebbe dovuto. E fu molto meno felice di quanto, forse, avrebbe potuto.
Nick Bollettieri: la scuola
A Mike Agassi non mancava sicuramente l’intelligenza per capire che il figlio, per diventare un campione vero, aveva bisogno di un maestro migliore di lui. Anzi, di una vera e propria scuola. Quella di Nick Bollettieri. Le sofferenze, per il giovane Andre, non erano certo finite. Anzi.
Se la motivazione intrinseca viene sostenuta dalla soddisfazione dei bisogni di autonomia, competenza e relazionalità[9], la Nick Bollettieri Tennis Academy costituiva un contesto solo parzialmente idoneo alla protezione di tale potentissima molla interiore.
Rispetto all’autonomia, da un lato la scuola poneva delle regole formali molto rigide, dall’altro lasciava i ragazzi liberi di fare più o meno tutto quello che volevano nelle ore di riposo. Fin troppo: scazzottate e violenze di vario genere venivano tacitamente tollerate[10]. Agassi, nel libro, non si pronuncia rispetto all’autonomia nell’apprendimento, dunque non ci è dato sapere in che misura vi fosse una condivisione degli obiettivi tra i maestri e i ragazzi. Così come il libro non fa alcun particolare riferimento ai metodi di allenamento tecnico dell’Accademia di Bollettieri. Probabilmente la scuola era diventata, nel tempo, un centro di selezione tra giovani tennisti che avevano già dimostrato di avere talento, per portare competenze straordinarie a livelli ancora superiori. Agassi, Chang, Courier, Serena e Venus Williams, Monica Seles, per citarne solo alcuni, straebbero a testimoniare proprio questo. Nessun dubbio, invece, sulla mancanza di relazioni umane positive. A quanto scrive Agassi, i rapporti tra ragazzi erano basati principalmente sulla brutalità e quelli tra i ragazzi e la scuola erano molto freddi. Nike Bollettieri, cha aveva la fama di un imbroglione attento solo ai soldi, non aveva quasi alcun rapporto personale con i giovani tennisti, mentre i maestri della scuola vengono descritti come emanazioni del grande capo, senza una loro personalità.
La quasi totale assenza di umanità e di empatia sarà una delle caratteristiche della relazione tra Bolletteri ed Agassi, anche quando Nick diventerà il personal coach di Andre. Scrive Agassi: “Non mi aspetto molto da lui affettivamente.”[11] Salvo rarissime eccezioni, il loro rapporto si limiterà agli aspetti tecnici e tattici. In questo ambito, la competenza di Nick era fuori discussione, come dimostrano le sue parole a un Andre ancora a disagio sulla terra rossa del Foro Italico: “Devi solo abituartici, Non essere impaziente, non cercare di concludere ogni punto.”[12] In questo consiglio non vi è solo sapienza tennistica, ma anche una profonda conoscenza dell’atleta. Sarà questo uno degli spunti sui quali, qualche anno dopo, insisterà di più Brad Gilbert e che provocherà un cambiamento determinante nel gioco di Agassi.
Molto minore era la capacità di Bollettieri di sostenere il giovane campione in situazioni stressanti. Ecco cosa accadde al Roland Garros, nel 1991. Andre sta giocando la finale con Courier, quando inizia a piovere. Il match viene interrotto e i tennisti rientrano nello spogliatoio, in attesa che il tempo migliori. “Entra Nick e io lo guardo in cerca di incoraggiamento, ma lui non dice niente. Niente. Da un po’ mi sono reso conto che continuo con Nick per abitudine e lealtà, non per le sue qualità di coach. In questo momento, tuttavia, non è di istruzioni o consiglio che ho bisogno, ma di una dimostrazione di umanità, che è uno dei doveri di un coach. Ho bisogno di comprensione in un momento così carico di adrenalina. È chiedere troppo?”[13]
Il rapporto tra i due si concluderà con la stessa freddezza che lo ha più o meno sempre accompagnato. Saranno i giornali a informare Andre del “divorzio tra Agassi e Bollettieri”. Nick ne aveva parlato con la stampa prima ancora che con lui.[14]
Gil Reyes: talento e realizzazione personale
Gil Reyes fu una delle figure più importanti e positive della vita di Andre Agassi. Il primo, tra i professionisti che lavoravano per lui, a offrirgli ascolto, comprensione, umanità e dunque la possibilità di svilupparsi come persona oltre che come atleta. Un alleato formidabile per iniziare a trasformare una vita fatta, sino ad allora, quasi esclusivamente di sofferenza. “Gli spiego che la mia vita non mi è mai appartenuta neppure per un giorno. È sempre stata di qualcun altro. Prima mio padre. Poi Nick. E sempre, sempre il tennis. Perfino il mio corpo non era mio prima che incontrassi Gil, che sta facendo quello che dovrebbe essere il compito di un padre. Rendermi più forte.”[15]
Gil, che in realtà sapeva poco di tennis essendo un personal trainer, è stato per Andre il coach probabilmente più completo, tanto da riassumere in sé tutte le qualità più apprezzate dagli atleti in un coach sportivo.[16]
In primo luogo, la capacità di infondere tranquillità, fiducia e determinazione.
L’azione di Gil sulle emozioni di Andre era efficace non soltanto prima o durante partite, ma addirittura fuori dal campo, nei momenti più delicati della vita. Quando Agassi fu operato al polso destro, pretese la presenza di Gil in sala operatoria. “Mi coprono naso e bocca con la mascherina (…) Gil è qui, mi dico. Ci pensa lui. Gil è in servizio. Andrà tutto bene.”[17]
Poi la competenza e la serietà professionale.
Quando Agassi lo conobbe, Gil era preparatore atletico dell’Università del Nevada – Las Vegas. Più avanti Andre lo descrive come “un’università ambulante” [18]. Un uomo con uno sconfinato amore per il sapere, che accompagna gli allenamenti prendendo nota di tutto e tracciando sul suo taccuino grafici e disegni, sempre pronto ad aggiornarsi e a confrontarsi con studiosi e professionisti di tutto il mondo. Come coach, usava la sua scienza in funzione delle specifiche necessità di Andre. In questo senso, Gil faceva totalmente suo il principio che non esiste un cliente uguale a un altro e addirittura che uno stesso cliente può avere, in momenti diversi, necessità di allenamento diverse. “(…) se qualcuno può scrivere il tuo programma di allenamento su un foglio di carta, quel programma non vale il foglio su cui è scritto (…) non tiene alcun conto di dove sei, di ciò che provi, di quello su cui ti dovresti concentrare.”[19]
Terza straordinaria qualità di Gil era il modo di comportarsi.
Mai polemico sugli errori, trasformava le vittorie e le sconfitte in occasioni di apprendimento. Nel 2000 Agassi perde al terzo turno a Roma, al secondo turno a Parigi, in semifinale a Wimbledon. La madre e la sorella hanno il cancro. Prima degli US Open pensa al ritiro. “Tu non sai giocare, dice Gil, a meno che non ti senti ispirato. È la tua natura. Lo è sempre stata, da quando avevi 19 anni. Ma non puoi sentirti ispirato a meno che i tuoi cari non stiano tutti bene. E io ti porto affetto per questo”.[20] In un momento così difficile, Gil va alla ricerca del luogo in cui si trova la felicità di Andre, le relazioni affettive, e glielo restituisce insieme ai suoi sentimenti per lui. Dalle sconfitte e dai dolori dell’ultimo periodo, trae una lezione sulla quale costruire in futuro. Non è un caso che la vera svolta nella vita di Andre fu l’idea e poi la realizzazione dell’Andre Agassi College Preparatory Academy, una scuola per bambini in situazioni sociali e familiari difficili.
Gil metteva Andre in condizione di trovare sempre la massima motivazione.
Lasciava che gli obiettivi dell’allenamento uscissero direttamente da Andre, lo aiutava a definirli attraverso una serie di domande molto aperte e spesso provocatorie.[21] In un contesto votato al miglioramento continuo delle prestazioni fisiche di Agassi, Gil cercava di trasferire ad Andre parte del suo sapere, per renderlo consapevole del lavoro che stavano svolgendo insieme.[22] La relazione umana tra i due era straordinaria e, tra le altre cose, permetteva al loro lavoro di procedere in maniera eccellente: “A Gil piace gridarmi ordini quando mi sto allenando, ma i suoi urli non hanno niente in comune con quelli di mio padre. Lui urla d’amore”.[23] Gil Reyes, a differenza di Mike Agassi ed anche di Nick Bollettieri, sapeva perfettamente come soddisfare i tre bisogni alla base della motivazione intrinseca (vedi sopra).
La capacità di Gil di gestire situazioni stressanti emerge in più di un’occasione.
Un esempio per tutti: il giorno prima di giocare la semifinale degli US Open del 1994, Agassi legge un articolo in cui un giornalista (Lupica) scrive che Andre non è un campione. Questo provoca una crisi immediata. In un attimo, Andre mette tutto in discussione: le sue possibilità di vincere il torneo, il suo valore come tennista, la sua scelta dell’allenatore, persino la sua relazione con la Shields. Un’esplosione di pessimismo assolutamente pervasivo. Gil lo aiuta a ritrovare la calma, arrestando la fuga di pensieri negativi. Gli ripete due volte: “Controlla quello che puoi.” Riporta la sua attenzione sul qui ed ora.[24]
Infine, la comunicazione.
Benché tra le qualità richieste dagli atleti a un coach sportivo, la capacità di comunicare sia l’ultima in graduatoria, Gil era eccezionale anche in questo, perché era molto più di un comunicatore. Era un pedagogo. “Gil a volte sillaba letteralmente le parole. Gli piace enfatizzare un concetto sillabandone la parola chiave. Gli piace scomporre le parole per me, aprirle, rivelare le conoscenze al loro interno, come la polpa in un guscio.”[25]
Le qualità di Gil Reyes non si esauriscono qui. Tra le tante altre che si potrebbero ricordare, forse la più importante per Agassi fu la capacità che il suo coach aveva di offrirgli ispirazione. “Dagli appunti di Gil, dalla cura che gli dedica, dal modo in cui non salta mai un giorno, capisco che io lo ispiro quanto lui ispira me”.[26] O ancora: “Una mattina, prima del sorgere del sole, m’insegna una frase che sua madre gli dice sempre. Que lindo es sonar despierto, dice. Com’è bello sognare a occhi aperti. Sogna a occhi aperti, Andre. Sono capaci tutti di sognare dormendo, ma tu devi sognare sempre e raccontare a voce alta i tuoi sogni e crederci”.[27] Difficile esprimere meglio l’essenza del suo lavoro di coach, l’unico vero life coach che Agassi abbia mai avuto, rivolto non tanto all’analisi dei sogni fatti ad occhi chiusi, quanto alla ricerca, alla scoperta e alla realizzazione di quelli fatti ad occhi aperti.
Brad Gilbert: eccellenza vs perfezionismo
Nel marzo del 1994 Agassi conosce Brad Gilbert, l’uomo che più di ogni altro cambierà il suo modo di stare in campo. Brad è l’autore di un libro: Winning Ugly. Nel titolo c’è tutta la filosofia di Brad e, in nuce, tutto il lavoro che svolgerà per trasformare Andre in un giocatore vincente. Al loro primo incontro, Brad dimostra grande autenticità e, soprattutto, una conoscenza raffinata del tennista e dell’uomo che ha di fronte. “Cerchi sempre di essere perfetto senza riuscirci, dice, e questo ti fa andare fuori di testa. La tua fiducia in te stesso è distrutta e la colpa è del perfezionismo. Cerchi di fare di ogni tiro un vincente, quando essere costante, continuo, terra terra, ti basterebbe per vincere il novanta per cento delle volte”.[28]
Brad attacca subito il perfezionismo e lo collega alla fiducia. La convinzione di riuscire è legata alla percezione delle proprie abilità rispetto a un compito dato ed ha importanti riflessi sia sulla prestazione sia sulla valutazione della prestazione.[29] Ma chi può pensare di avere abilità tali da svolgere un compito in maniera perfetta? “Se insegui la perfezione, se fai della perfezione il tuo obiettivo ultimo, sai che succede? Insegui qualcosa che non esiste. Rendi infelici tutte le persone intorno a te.”[30] Qui Gilbert alza il tiro: non soltanto il perfezionismo annienta la fiducia in sé, ma conduce anche all’infelicità. Il credo di Gilbert è molto più pragmatico: “Non devi per forza essere il migliore del mondo ogni volta che scendi in campo. Devi essere soltanto meglio di un’altra persona.” Questo è vincere sporco. Non pensare di raggiungere la perfezione, non pensare di non avere limiti, ma vincere nonostante i propri limiti, facendo leva su quelli dell’avversario. “Smetti di pensare a te e al tuo gioco e ricordati che il tizio dall’altra parte della rete ha dei punti deboli. Attacca i suoi punti deboli.” In termini più tecnici, diremmo che Gilbert stava spingendo Agassi ad un minore orientamento al sé e a un maggiore orientamento al compito che, in questo caso, include considerare i punti deboli dell’avversario. Dopo quel primo incontro, Brad seguirà Andre per otto anni.
Alla competenza tecnica Brad unisce la capacità di capire Andre come persona e questo contribuisce, assieme alla presenza continua ed essenziale di Gil, a scalfire il sistema totalitario costruito da Mike Agassi anni prima. Scrive Andre a proposito di Gilbert: “La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità (…) Nessuno me l’aveva detto prima.”[31]
All’inizio dei Canadian Open del 1994 il tennista è particolarmente sotto pressione per la mancanza di risultati. Gilbert dice ad Andre di non prevedere nulla di buono: “Hai un tabellone tremendo.” Questo abbassa improvvisamente la pressione. “Poche cose mi piacciono più delle scarse aspettative”, commenta Andre. Infatti vince il primo incontro dopo una dura lotta e poi il torneo.[32] A seguire vincerà sullo slancio anche gli US Open.
Vincere sporco costituisce l’asse attorno al quale ruota tutto il lavoro di Brad e Andre.
Ma Gilbert non si limita a questa idea. È dotato di una fervida creatività. Nel suo caso, il pensiero laterale serve a trovare ogni volta le leve per mettere Andre in movimento. Così, l’estate del 1995 viene trasformata da Brad nell’estate della vendetta. Gilbert usa alcune dichiarazioni di Becker su Agassi per scatenare Andre. Dice: “Voglio che tu faccia fuori questo stronzo.”[33] L’obiettivo-risultato Becker diventa una straordinaria motivazione che trasforma tutti gli altri incontri e tutti gli altri tornei in obiettivi-performance nei quali Andre raggiunge risultati straordinari.[34] Nei primi otto mesi del 1995 vince 63 incontri su 70 e poi batte lo stesso Becker nelle semifinali degli US Open.
Gilbert è un coach molto solido anche nelle difficoltà. Nel 1997 Agassi sembra a un punto morto della sua carriera. È provato dalle relazioni personali, indebolito dall’uso delle droghe. Dopo l’ennesima sconfitta, Gilbert dimostra di nuovo creatività e, questa volta, anche molto coraggio. Mette Andre con le spalle al muro. “O lasci perdere – o ricominci. Ma non puoi continuare a umiliarti in questa maniera. (…) Sto parlando di ripartire da zero”.[35] In pratica, propone ad Andre di ricominciare dai tornei minori, per ritrovarsi. La strategia di Brad funziona ancora una volta. Ripartendo da zero, Andre ricomincia ad allenare la sua fiducia in sé, concentrandosi su obiettivi semplici e poi gradualmente sempre più complessi. Nel giro di pochi mesi torna ai vertici delle classifiche.
Il contributo di Brad Gilbert raggiunge forse il suo apice a Parigi, nel 1999. Andre in semifinale affronta Hrbaty. In vantaggio di due set, perde il terzo e rischia che il match gli sfugga di mano. Inizia a piovere. Dagli spalti Gilbert gli indica le nuvole. Andre coglie l’assist e chiede la sospensione dell’incontro, che infatti viene rimandato al giorno dopo. Quella sera a cena Brad, davanti a un Agassi sfiduciato e impaurito, si esprime così: “Ho bisogno di ventotto minuti da te domani (…) È uno sprint per tagliare il nastro. Puoi farlo. Non devi fare altro che vincere cinque game e non ci dovrebbero volere più di ventotto minuti.” Il coach concentra l’attenzione di Agassi su un obiettivo molto preciso (vincere cinque game) e lo circoscrive nel tempo (ventotto minuti). Questa scelta non avrebbe pagato con chiunque, ma con Andre funziona. “Brad conosce la mia mente, il modo in cui lavora. Sa che vado a nozze con ordine, specificità, un obiettivo chiaro e preciso”.[36] Il giorno dopo Agassi vince il quarto set. In ventotto minuti esatti.
In finale lo aspetta Medvedev, che vince il primo set. Di nuovo inizia a piovere. Negli spogliatoi, in attesa che il tempo si ristabilisca, Andre si sente perso. Inizia un racconto del fatalismo in cui lui scompare, non ha alcun potere: “È troppo in gamba, Brad. È semplicemente troppo in gamba. Non posso batterlo. Questo stronzo è alto 1,98, serve delle bombe e non sbaglia mai. Mi fa male con la sua battuta, mi fa male con il rovescio (…) Non sono capace.” Gilbert risponde come una furia: “Non puoi giudicare come gioca! Sei così confuso là fuori, così accecato dal panico. (…) Lasciati andare. Se devi perdere, fallo alle tue condizioni. (…) Costringilo ad affrontarti. Fagli sentire che ci sei.”[37] Brad offre ad Agassi una visione diversa della realtà: non è Medvedev ad essere troppo forte, sei tu ad essere troppo spaventato. E poi gli porge la chiave per uscire dal tunnel: gioca alle tue condizioni. Dunque lo tira per i capelli fuori dal fatalismo, nel quale Andre è impotente perché è inesistente, e lo invita a concentrarsi su quello che può controllare: il suo gioco.
Arrivano al quinto set. Agassi conduce 5-4, ma ha già sciupato due match-ball. Al cambio di campo guarda Brad che solleva quattro dita. Altri quattro punti. Di nuovo un obiettivo molto preciso. Agassi vince Parigi.
Credo che il lungo e prezioso lavoro di Brad Gilbert con Agassi sia stato caratterizzato da tre pilastri fondamentali. Da un lato, una lotta continua al perfezionismo attraverso l’allenamento dell’umiltà, intesa come consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità.[38] Da un altro lato l’oscillazione, a seconda dei momenti, tra l’abbassamento delle aspettative e l’individuazione creativa di obiettivi risultato molto precisi che, anziché pesare su Agassi, agivano da straordinarie molle motivazionali. Infine, una conoscenza e un rispetto molto profondi e imprescindibili di Andre Agassi, come tennista e come essere umano.
Conclusioni
Andre Agassi ha giocato oltre mille incontri affrontando tennisti di tre diverse generazioni. Basti pensare a campioni straordinari come Jmmy Connors, Pete Sampras e Roger Federer. Eppure, per quanto questo pensiero possa sembrare retorico, i suoi avversari più difficili molto spesso non si trovavano dall’altra parte della rete, ma dentro di lui.
La sua vita è stata segnata dal rapporto con il padre. I primi anni passati quasi interamente sul campo di cemento di Las Vegas non hanno modellato soltanto la struttura tennistica di Agassi, ma anche quella personale.
Il sistema totalitario e violento usato dal padre Mike costituisce l’ennesima dimostrazione che l’allenamento del talento senza la considerazione della persona che lo possiede può portare a risultati particolarmente dolorosi sotto il profilo umano. È innegabile che quegli stessi anni abbiano contribuito a creare uno dei più grandi tennisti del mondo. Questo non significa che il metodo funzioni. Al contrario. Riteniamo che lo sviluppo del talento non possa prescindere dalla considerazione e dallo sviluppo delle passioni e delle potenzialità. Non ci piacciono le vittorie se i mezzi usati per raggiungerle non sono etici e quelli di Mike non lo erano, perché non prendevano in minima considerazione l’individuo. Non ci interessano i risultati se ottenuti sacrificando la felicità.
Certamente non è stato Nick Bollettieri a migliorare la vita di Agassi. Era anche lui troppo concentrato su se stesso e sui propri obiettivi personali, la fama e il denaro, soprattutto il denaro, per occuparsi delle persone con cui veniva in contatto. Non è un caso che il libro parli di Bollettieri molto più come capo e responsabile della Nick Bollettieri Tennis Academy che non come personal coach.
Brad Gilbert ha avuto un ruolo decisivo sotto il profilo professionale e importante sotto quello umano. È stato fondamentale nell’attacco al perfezionismo, al quale Agassi è stato allenato senza sosta dal padre Mike e che per moltissimi anni lo ha reso un tennista più debole e un uomo insicuro e infelice. Gilbert fu un coach competente, creativo e coraggioso, sotto tutti i punti di vista.
Ma la persona che cambiò davvero e profondamente la vita di Agassi fu Gil Reyes. Perché, per la prima volta, Andre fu ascoltato e si ascoltò fino in fondo. Gil è stato l’unico coach che ha dato spazio allo sviluppo della personalità di Agassi e lo ha allenato a realizzarsi pienamente nello sport e nella vita. È stato lui a individuare e poi a rivelare ad Andre alcuni tratti della sua personalità che sarebbero risultati tanto importanti, in particolare la sua grande carica spirituale e il suo amore per gli altri che ha ispirato, nella seconda parte della sua carriera, il suo successo sportivo e lo ha spinto a realizzare il suo maggior capolavoro: l’Andre Agassi College Preparatory Academy. Un luogo dove moltissimi bambini, che vengono da condizioni sociali particolarmente difficili, riescono a fare sport, a studiare, a seguire le proprie passioni, a prepararsi alla vita. A crescere come Andre, da bambino, non ha potuto fare.
Bibliografia
Agassi A. (2009) Open, Einaudi
Cei A. (1998) Psicologia dello sport, Il Mulino
Stanchieri L. (2012) Come combattere l’ansia, Newton Compton
Stanchieri L. (2006) Essere leader non basta, Franco Angeli
Stanchieri L. (2004) Life Coaching, Verdechiaro Edizioni
Stanchieri L. (2008) Scopri le tue potenzialità, Franco Angeli
[1] Agassi 2009 pag, 46
[2] Agassi 2009 pag. 43
[3] Agassi 2009 pag. 36
[4] Agassi 2009 pag. 37
[5] Stanchieri 2012 pag. 261-262
[6] Agassi 2009 pag. 35
[7] Agassi 2009 pag. 37
[8] Agassi 2009 pag. 212
[9] Stanchieri 2006 pag. 80-82
[10] Agassi 2009 pag. 96
[11] Agassi 2009 pag. 128
[12] Agassi 2009 pag. 137
[13] Agassi 2009 pag. 203
[14] Agassi 2009 pag. 227
[15] Agassi 2009 pag. 180
[16] Stanchieri, Dispensa Il coaching e la scienza dello sport, pag. 6.
[17] Agassi 2009 pag. 228
[18] Agassi 2009 pag. 257
[19] Agassi 2009 pag. 173-174
[20] Agassi 2009 pag. 421
[21] Agassi 2009 pag. 174-177
[22] Agassi 2009 pag. 175.
[23] Agassi 2009 pag. 198
[24] Agassi 2009 pag. 250
[25] Agassi 2009 pag. 176
[26] Agassi 2009 pag. 185
[27] Agassi 2009 pag. 196
[28] Agassi 2009 pag. 240
[29] Stanchieri 2006 pag. 122-124; Cei 1998 pag 70-86
[30] Agassi 2009 pag. 241
[31] Agassi 2009 pag. 242
[32] Agassi 2009 pag. 247-249
[33] Agassi 2009 pag. 271
[34] Stanchieri 2004 pag. 40-44
[35] Agassi 2009 pag. 325
[36] Agassi 2009 pag. 381
[37] Agassi 2009 pag. 385-386
[38] Stanchieri 2008 pag 163-165