Proviamo a sommare le preoccupazioni, l’ansia, le frustrazioni, le ore di sonno perse, le cattive risposte, i conflitti, le lacrime, gli imbarazzi, le umiliazioni, la tristezza, le decisioni sbagliate, la solitudine, le meschinerie, i rimuginamenti, le rinunce che molte persone sperimentano nei momenti di fallimento nella loro vita. E che numero fa? Che tipo di impronta lasciano di noi? Che impatto generano sulle persone intorno a noi, nel nostro ambiente lavorativo, familiare, sociale? Quanto subiamo e ci adattiamo a questo sentire rispetto agli errori e ai fallimenti? Quanto lo generiamo ed alimentiamo in prima persona o quanto, invece, siamo capaci di trasformarlo in qualcosa di utile, funzionale e riutilizzabile?
Da tempo studiamo e lavoriamo con gli effetti di una certa cultura del successo in cui perfezionismo, adesione ad un modello precostituito, valido e giusto per tutti, il dover essere sempre capaci, preparati, abili, dotati, sempre un po’ migliori degli altri, spesso in competizione con loro, sono così presenti e pervasivi nei nostri ambienti di vita. Da tempo ci interroghiamo su quanto incidano sul tasso individuale e collettivo di felicità ed autorealizzazione di oggi e delle generazioni a venire.
Sappiamo, ormai da qualche tempo, e grazie ai sempre più numerosi studi scientifici intorno al potenziale umano, (penso, ad esempio, oltre a quelli di Luca Stanchieri sulle potenzialità, ad Ericsson con l’allenamento intenzionale, la Duckworth con la scala della grinta o la Dweck con la mentalità dinamica) che il talento e l’eccellenza non sono dotazioni fisse con cui nasciamo, piuttosto traguardi e mete a cui tendiamo attraverso l’esercizio di alcune facoltà umane come la passione, l’impegno, la tenacia, l’impiego di alcune tecniche di allenamento intenzionale e di fatica buona, la professionalità e i feed back competenti di esperti, maestri e coach e, sopra a tutto, la capacità di saper trasformare le esperienze, sia positive che negative, in apprendimenti che ci rafforzino e ci affinino in questa direzione.
Quanti più Mozart, Manet, Thomas Edison, Elvis Presley, potremmo avere se scegliessimo di fare nostra e contribuire ad una sana cultura del talento, della felicità possibile e se comprendessimo, pienamente, il ruolo centrale che l’errore e lo sbaglio possono avere? Leggendo le storie dei grandi, dei talentuosi, di quelli che ce l’hanno fatta a realizzare loro stessi, perseguendo i propri sogni e i propri credo, anche quando nessuno ci avrebbe scommesso sopra un penny, quello che salta all’occhio sono il numero dei tentativi, delle strade provate, degli ostacoli superati, dei cambi di strategia, delle dilatazioni dei tempi, delle ripartenze, dei rifiuti, delle battute d’arresto, dei passi falsi, ma, anche, dal continuare ad esserci, a provarci, nel tempo, nelle avversità.
Ciò che li accomuna è di non aver permesso alle difficoltà di fermarli sulla strada per la realizzazione, aver imparato che il successo può arrivare dopo molti tentativi falliti, che ogni performance di talento è stata preparata nelle ripetizioni e nel tempo e, possibilmente, anche preceduta da molte performance scarse, che sono state comprese, accettate e trasformate in un apprendimento ed in un rilancio.
“Il Gabbiano Jonathan Livingstone” è stato rifiutato venti volte prima di essere pubblicato.
L’ “Ulisse” di James Joice è stato bruciato in piazza da ben due governi.
“Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust è stato rifiutato da tutti gli editori del suo tempo, ha scelto di pubblicarlo a sue spese, è diventato un capolavoro, ha ricevuto le scuse da uno degli editori che lo aveva rifiutato.
Emily Dickinson ha visto pubblicare solo una minima parte delle sue opere di talento.
Uno dei capolavori più imponenti e maestosi di Michelangelo è stato rifiutato dalla committenza perché consegnato in ritardo.
Van Gogh, in vita, ha venduto solo uno dei suoi dipinti.
Winston Churchill è stato bocciato due volte agli esami di ingresso della Accademia Reale Britannica.
Emile Zola è stato bocciato due volte agli esami di Lingua e Letteratura alla Sorbonne.
Thomas Edison era considerato uno stupido dai suoi insegnanti che gli dissero che non avrebbe mai combinato nulla e che “giocherellare, continuamente, con la corrente alternata è solo una gran perdita di tempo”.
L’insegnante di musica di Giacomo Puccini gli ha detto che non aveva talento e avrebbe fatto meglio a rinunciare alla musica.
I parenti e gli insegnanti di Einstein lo consideravano un ritardato e gli dissero che non avrebbe mai combinato nulla nella vita.
Quanti Sig. Mario Rossi e Sig.re Maria Rossi hanno rinunciato a studi, mestieri, passioni che li avrebbero resi felici e realizzati perché non dotati, non capaci, non capiti, non sostenuti, non valutati correttamente, non allenati anche e proprio da chi è preposto alla crescita e allo sviluppo del potenziale umano, genitori, insegnati, allenatori sportivi, mogli e mariti.
Il fallimento, infatti, si confronta con scenari e situazioni differenti ai quali rispondere e reagire con altrettante strategie.
Il contesto è avverso allo sviluppo del talento, la cultura dominante dà un significato statico all’errore, lo usa come un giudizio tranchant di qualità sulla persona e lo condanna come inaccettabile. Possiamo scegliere di sottrarci, di fare nostra una differente cultura e dare un significato funzionale a quei giudizi dentro ad un nostro piano di allenamento e crescita.
Il contesto non è competente. Gli enti, i ruoli, le persone preposte alla valutazione del talento non hanno una conoscenza, un metodo e un mestiere che li renda capaci di restituire elementi di performance funzionali all’indirizzare e rafforzare il processo di allenamento e sviluppo. Possiamo cercare un contesto alternativo capace di fare leva sui punti di forza per rilanciare su quelli da sviluppare, capace di trovare modalità creative ed individuali di allenamento di quel potenziale al talento.
L’errore avviene dentro ad un processo di allenamento e acquisizione di abilità e competenze. Durante i tentativi, le sperimentazioni, le ripetizioni incorriamo in avversità, criticità e fallimenti che ci impediscono di riuscire e ci indeboliscono. Possiamo scegliere di fare nostro un metodo di allenamento intenzionale che attraverso una scansione precisa e puntuale delle performance, ci porti a definire scopi specifici per ogni sperimentazione, analizzare cosa ha funzionato e cosa no, a trasformare errori in apprendimenti e a costruire una nuova sperimentazione sulla base di queste informazioni.
Sposare una rinnovata concezione del talento come processo di allenamento rigoroso ed intenzionale, mosso da passione e sostenuto da perseveranza, significa scardinare i modi di considerare l’errore o il fallimento, trasformare i significati e i ruoli dei principali attori nel processo di fioritura e sviluppo del potenziale umano.
L’errore smette di essere un’umiliazione, una testimonianza di scarso valore, una punizione, una fine e può diventare una sfida, un tentativo, un’illuminazione, un’ispirazione, un inizio.
Coloro che sono in una posizione di potere rispetto al potenziale umano possono passare dal mortificare le aspirazioni personali e abbattere i sogni al dirigere, allenare ed insegnare in direzione della loro realizzazione.
Le valutazioni ed i giudizi da statiche etichette di mancanze e inadeguatezze che portano a punizioni e paura verso l’intraprendenza e il rischio diventano dinamiche, precise e puntuali scansioni di cosa sta funzionando per rafforzarlo e di cosa non sta funzionando per allenarlo e svilupparlo.
Le prestazioni e le performance da risultati finali verso un obiettivo fisso e prestabilito possono diventare momenti e azioni di un piano di allenamento in direzione di una meta futura dinamica e flessibile.
Le famiglie, le scuole, le aziende si trasformano da enti e istituzioni di verifica e controllo a palestre creative di allenamento al talento e alla fatica buona.
Lo scopo non è più il risultato, il trofeo, l’adesione al modello, ma la passione, la tenacia, il saper sognare, il saper osare, il saper decidere, il saper crescere e architettare significati, opere e relazioni in direzione di una maggiore felicità possibile che poi si, possa portare al successo.
Certo, dopo l’identificazione con una rinnovata cultura di allenamento al talento, da cui un nuovo significato per errori e fallimenti, ci vuole un metodo e degli strumenti per esercitarla e sostenerla. In questo scenario, acquisire competenze di allenamento e sviluppo del potenziale umano, di coaching, può diventare una strada per vivere il nostro ruolo di educatori ed innovatori culturali in maniera più forte, cosciente e benefica.
Ad ognuno di noi scegliere da che parte stare, che decisioni prendere, che esempio dare, come reagire, cosa guardare e come trasformare le inevitabili avversità, inciampi, battute d’arresto, sbagli.
“…mentre tutti auguravano alla Principessa Rosalba felicità, bellezza e successo, il Saggio del Villaggio le disse, bonariamente, il meglio che ti posso augurare è una piccola dose di avversità…“
Roberta Gandini
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L’articolo è tratto dal n.3 di “Omega, la rivista del Coaching Umanistico”. Puoi scaricare la rivista completa a questo LINK.