La ricerca della felicità si destreggia fra etica e psicologia, fra filosofia e arte, fra scienza e letteratura. In breve fra natura e cultura. Dopo un intero secolo trascorso a studiare i territori oscuri della mente, la psicologia, come scienza, ha volto lo sguardo, modificando il suo paradigma. Le ricerche sull’autodeterminazione, sulle potenzialità, sull’edonismo e l’eudaimonia e sulle peak experience (solo per citarne alcune) hanno cominciato a esplorare la felicità. Una delle teorie più interessanti, riportata nel mio libro ‘Non c’è problema’ (Bur-Rizzoli editore), è quella di Sonja Lyubomirsky ed è denominata la teoria del 50-40-10. Secondo la psicologa americana, la felicità dipende da fattori biologici (50%), circostanze esterne (10%), azioni/pensieri (40%). Sul piano matematico è formulabile in termini addizionali, F=fb + ce + ap, mentre graficamente appare come una torta a fette asimmetriche. Come ogni teoria nel campo delle scienze umane, si avvicina più a un’ipotesi di ricerca che a un dogma indiscutibile.
Nondimeno ha alle spalle studi seri che vanno considerati. Colpisce che le cause esterne della felicità abbiano un peso pari al 10%. Ricerche decennali hanno dimostrato infatti che gli eventi esterni hanno un peso relativo sul nostro benessere complessivo. Paesi con lo stesso Pil hanno tassi di felicità molto diversi. Gli scienziati hanno dimostrato che non esiste un rapporto proporzionale crescente fra reddito e soddisfazione di vita, se non fino a un certo punto. In generale la gioia provocata dal successo, dalla fama, dal reddito, dalla carriera, dal matrimonio, dalla vittoria dura poco tempo. La notizia positiva è che ciò è vero anche per i fattori esterni negativi. La sofferenza di una rottura affettiva, di un licenziamento o di un fallimento tende a affievolirsi con il succedersi delle settimane. Questo fenomeno di abituazione è denominato effetto treadmill. Dopo un certo lasso di tempo dall’evento positivo o negativo, tendiamo a tornare ai livelli di felicità antecedenti l’evento stesso. Migliorare le condizioni della propria esistenza (finanziarie, professionali, sociali e politiche) è certamente un fattore determinante per incrementare il tasso di felicità, ma non risolutivo. Meglio avere un lavoro che essere disoccupati, direbbe una saggia zia, ma avere un lavoro non comporta essere felici, risponderebbe la scienza. In realtà possiamo portare decine di biografie di persone di talento o di successo che, pur acquisendo fama e ricchezza, hanno avuto vite tristi e particolarmente incasinate (consiglio vivamente “Viaggio a Echo Spring” di Olivia Laing).
Un altro fattore di felicità è il nostro corredo biologico che ne causa il 50%. Il corpo per sua natura tende al benessere, seguendo i principi omeostatici di Damasio. Il corpo umano è un’opera straordinaria. È capace di difendersi, di adattarsi, di rafforzarsi e di auto-aggiustarsi, ma non è esente da difetti che segnala sotto odiose forme di dolore. Una certa sottocultura iperpsicologizzante, tende a sottovalutare il peso del substrato biologico che permette la nostra vita. La medicina non aiuta. Tipica è la tesi che se ti senti male e il medico non capisce perché, allora il problema è psicologico. Povera psiche, trattata come un letamaio, ricolmo di lordure dagli effetti distruttivi. In realtà le complessità biologiche genetiche e epigenetiche generano stati emotivi ed esistenziali, le cui origini sono da scoprire. Ancora oggi non sappiamo le eziopatogenesi dei disturbi mentali. In questa zona oscura, fioriscono e speculano ciarlatani di ogni tipo, che spacciano cure psichiche miracolose e colpevolizzano i malati. In realtà ancora non sappiamo come funziona il nostro cervello e nemmeno gran parte del nostro corpo. Quindi come funziona il 50% della felicità è avvolto in gran parte dal mistero.
Regno del nostro governo è quel 40% di azioni e pensieri e, aggiungerei, di sentimenti. Non è poco. Anche perché se evitiamo di dare agli eventi esterni ogni ragione di felicità e infelicità e rispettiamo il corpo nella sua essenza biologica, questo 40% che dipende da noi può influenzare anche ciò che non dipende da noi, ovvero le circostanze e il corpo. La felicità come opera di sentimento e significato ispira la lettura degli eventi esterni, la loro comprensione e valorizzazione. Può metabolizzare in termini di valore le esperienze positive e trasformare quelle negative in occasione di crescita (è il tipico caso di post traumatic growth). Ma non può trasformare per magia un debito in credito e un lutto in una nascita. Così come la felicità può rafforzare il corpo, ma deve rispettare i vincoli. La felicità aiuta ad affrontare le malattie, ma non le evita, quando queste dipendono da altri fattori.
Ma allora che cos’è la felicità? Da dove deriva? Come si costruisce? La psicologia si ferma alla soglia della domanda. Ci dice che è un insieme composito di sentimenti positivi derivanti da significati di vita che a loro volta ispirano, ma non ci dice quali sono questi significati. La palla passa alla filosofia, all’antropologia, alla pedagogia, alla letteratura, ovvero alle correnti scientifiche, filosofiche e artistiche di quel variegato universo che crede nelle potenzialità umane e che definisco umanesimo.
La ricerca della felicità è la più alta sfida dell’umanesimo contemporaneo. È la sfida che gli esseri umani pongono agli umanisti. La felicità come domanda è all’ordine del giorno in ogni angolo del globo. Non solo nelle terre del lusso e del vizio, come le chiama Sloterdijk. Anche chi deve far fronte all’oppressione, alla guerra, alla fame e alle più tremende dittature, lo fa in nome di una felicità possibile (come ad esempio emerse a Piazza Tahir o all’inizio della rivoluzione siriana o in quella straordinaria avventura che fu la Tienanmen). La piramide di Maslow, dopo più di mezzo secolo dalla sua costruzione, si rovescia. I bisogni fisiologici, quelli relazionali, di stima e sicurezza vengono affrontati in termini di auto realizzazione ovvero di felicità. Senza questo, la fisiologia si indebolisce, l’appartenenza diventa alienazione, la stima degenera in narcisismo. La ricerca contemporanea della felicità fuoriesce dalle stanze oscure dei filosofi e diventa una domanda globale, sostituendo l’adattamento in nome dell’autorealizzazione. Non si vuole solo sopravvivere. Si affrontano deserti, tempeste, campi di concentramento, mafie crudeli e stati ipocriti, non solo per fame o pace, ma perché si vuole una vita degna di essere vissuta. E allora la felicità diventa la terra ignota, come un tempo era gran parte del globo. E come un tempo, attira esploratori, pionieri, ricercatori, artisti pronti ad affrontare la sfida, ma attira anche nugoli di ciarlatani e truffatori dediti a speculare e orde di nichilisti risentiti disposti a tutto pur di uccidere la speranza. Laddove la scienza si ferma, comincia l’etica e l’arte, ovvero la creazione umana del bene e del bello, che è creazione di significato, senso e scopo. Sappiamo che è un lungo processo di elevazione, dove a sforzi epici e risultati straordinari si alternano sconfitte rovinose e svuotamenti di ogni energia.
La felicità rifugge ogni soluzione facile, detesta il disimpegno, contesta ogni assolutismo e richiede la formazione del talento, ovvero di capacità umane straordinarie. Non ammette rinunce e fughe, ma nemmeno ossessioni e pretese, come chi non ammette emozioni negative e fugge di fronte al dolore, invece di accoglierlo e attraversarlo quando è necessario. La felicità è un’opera che vede nell’individuo, nella sua vita qui e ora, la verifica sentimentale della sua verità parziale, dinamica e crescente, ma non può che costruirsi nelle relazioni e nelle comunità liberamente scelte.
La felicità, come talento umanista, è una vocazione. Come vocazione, ha in sé amore e trascendenza. Ha alla base un indomabile sentimento di amore per la vita e una spinta a andare oltre il sè per ritrovarsi con gli altri e grazie agli altri. La felicità non segue percorsi di cause e effetto, non soggiace alla fisica meccanica. È la risultante probabile di un insieme di fattori che, dotati di autonomia e specificità, si combinano attraverso misteriose interfacce generando un insieme mai riconducibile alla somma delle parti. La felicità è una risultante probabile; una combinazione fra istinto e creazione. Il suo è il regno dell’incertezza. Curare le relazioni, coltivare l’essenza individuale, scovare attitudini e allenare le potenzialità, rendere felici gli altri attraverso le proprie opere, creare significati e scopi, scegliere i sentimenti positivi, sapersi difendere: tantissimi sono i fattori su cui lavorare. Ognuno ha una sua autonomia. Ma ha anche principi e valori che lo collegano agli altri. La felicità è come la coscienza: è un emergere dalla molteplicità di sentimenti, scopi, relazioni e valori che ci diamo nella vita. Per questo non può essere ridotta alla simpatica formula di un’addizione. Essendo un emergere armonico di diversità che si influenzano a vicenda e il cui esito non è prevedibile, la felicità è una funzione complessa di variabili che, pur essendo autonome, si influenzano reciprocamente, nel bene e nel male, esattamente come fanno gli esseri umani gli uni con gli altri. La felicità, come talento umanista, è certamente allenamento, elevazione, acrobazia. Implica un autosuperarsi. Grazie all’amore e alla trascendenza, ricerca soluzioni magnifiche e allena le competenze per generarle, progetta architetture benefiche di relazioni e comunità, si avvale di enormi bacini di solidarietà e dialogo fraterni, afferma valori capaci di rendere la vita un’opera d’arte, ma richiede anche enormi quantità di coraggio, per superare i mali che noi stessi produciamo. In questo allenamento, fatto di poche vittorie e molte sconfitte, atleti e allenatori devono essere disponibili a scambiarsi di posto come i maestri e gli allievi. Nessuno può essere esentato dall’allenamento e dall’apprendimento. I migliori maestri sono quelli che apprendono e i migliori allenatori sono quelli che si allenano senza posa. Non ci sono scorciatoie chimiche o ripiegamenti politici che tengano. La strada è lunga, piena di ostacoli, ricolma di paure. Nessuna conquista umana è stata semplice. La felicità è forse la più complessa e di certo la più meravigliosa, per questo richiede il talento di ognuno di noi.
Luca Stanchieri
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