L’importante è vincere
Riflessioni in preparazione del Seminario Annuale sui paradigmi “La vita delle idee, le idee della vita”
Le Olimpiadi incarnano il culto della Vittoria, che è presente nel loro DNA in modo implacabile, dirompente e impietoso. Fin dalla loro origine nel 776 a.C., quando la dea Nike elevava al rango divino chi eccelleva, e ancor prima quando la poesia omerica esaltava la forza, il coraggio, la bellezza, l’eccellenza, l’intelligenza e l’etica di chi riusciva a primeggiare e a superare gli altri.
Come ogni paradigma che ha una sua storia stratificata, la Vittoria genera valanghe di emozioni e sentimenti, che a volte appaiono irrazionali, illogici, persino violenti. Se vinci, sei un eroe e meriti la gloria; se perdi, sei deluso anche di fronte a te stesso. Partecipare alle Olimpiadi è già un’impresa straordinaria: qualificarsi per competere con i migliori al mondo. Tuttavia, la partecipazione impallidisce di fronte al supremo valore della vittoria. Non c’è consolazione che attenui lo sconforto della sconfitta.
Il paradigma della Vittoria è così apodittico e potente che folle di persone lo incarnano, lo assumono, lo esaltano e si esaltano. Tifosi, spettatori e appassionati acclamano con entusiasmo i vincitori, che si affacciano ai balconi nelle loro piazze di origine per salutarli senza sapere bene cosa dire o fare. La vittoria genera fama, successo, popolarità; per molti atleti, è la via per uscire dalla miseria. All’inizio il premio era solo una corona, poi divenne una statua, pasti gratuiti per tutta la vita, denaro. Il vincitori li meritava tutti per i deliri di gioia disinteressata e di pura ammirazione che sa suscitare. D’altra parte l’esaltazione popolare è sempre stata altruista, generosa, autentica, ma anche crudele, impietosa, severa. Non tollera fragilità, debolezze, errori o avversità. La sconfitta non è ammessa, nemmeno come fase di transizione. Il campione, spogliato della sua umanità autentica e rivestito delle fantasie dell’eroe (poiché nessuno conosce veramente chi sia, ma solo ciò che fa sul campo), diventa l’archetipo della massima virtù, un’allegoria suprema di bontà e bellezza; ma se perde viene gettato nel fango senza remore da chi un secondo prima lo esaltava. Chi primeggia, nel tempo, con continuità, viene proposto come modello da imitare fin dall’infanzia, come fonte d’ispirazione per chi pratica sport e per chi non lo fa, come simbolo di coesione comunitaria. Persino coloro che cercano di promuovere l’idea di imparare dalla sconfitta sono in realtà i seguaci più fanatici del culto della Vittoria.
La Vittoria, come paradigma, è un valore, una concezione, un programma e un obiettivo; ma non è mai certa; dipende da infiniti fattori, compresi quelli casuali, imprevedibili, fortuiti. In un atleta, ogni problema emotivo, mentale, fisico o relazionale è riconducibile alla gestione della vittoria o della sconfitta. Tutto si gioca fra la paura di perdere e la voglia di vincere. Il paradigma della vittoria non dà tregua nella mente di un atleta che sogna le stelle ed è terrorizzato dalle stalle. Quando si parla dell’atleta, le critiche e gli elogi, le polemiche e le difese d’ufficio, le accuse e i riconoscimenti, il circo dei social e i tribunali da bar vertono tutti sulla sua vittoria o la sua rovinosa sconfitta. Il campione che vince (una tautologia perché vittoria e campione sono indissolubili) rende veramente felice chi lo ha sostenuto, tifato, incoraggiato, perché bravo, forte, simpatico, o semplicemente perché ha la stessa origine culturale. Nello sport, la Vittoria è intrinsecamente un valore sacro. Nessuno può sfuggire all’egemonia del culto della Vittoria se ama, pratica o semplicemente assiste a una pratica sportiva.
È possibile una cultura umanista della Vittoria, libera da qualunque ipocrisia moralista? La Vittoria può essere un paradigma umanista e trovare nell’umanesimo la sua più autentica realizzazione come valore positivo, attrattivo e non terrorizzante e totalitario. Un valore straordinario proprio perché frutto dello sport, dell’allenamento, del gioco. La Vittoria è una conseguenza, non una causa. Tuttavia, chi esalta la Vittoria come obiettivo assoluto ed esclusivo in realtà la svilisce, la allontana; chi ne è ossessionato, non la raggiunge perché distoglie l’attenzione dal processo che la genera. Gli Stati che contano le medaglie per esaltare politiche nazionaliste, i laboratori che testano artifizi all’avanguardia per venderli a peso d’oro, le federazioni i cui giochi politici ignorano ogni regola tranne quella dello scontro di potere, le società che selezionano i “talenti” per spremerli fino all’esaurimento, i vantaggi economici che rappresentano un doping di cui nessuno parla (ci sono atleti che non hanno nemmeno una bici decente quando vanno alle Olimpiadi), gli incompetenti che si accapigliano discettando su come distinguere una donna da un uomo (mentre sugli uomini non hanno dubbi), non hanno nulla a che fare con la fatica titanica che richiede vincere. Liberarsi dagli incompetenti, dai corrotti, dai furbi significa esaltare lo sport come gioco di relazioni magnifiche e onorare chi vince con gioia e ammirazione, senza denigrare chi perde.
Ricordiamo: fare sport e vincere non cura nessun male, non coltiva alcun cibo, non costruisce alcuna casa, non insegna alcun mestiere, non migliora la convivenza, non preserva l’ambiente e non promuove la pace nel mondo (le guerre continuano implacabili anche durante le Olimpiadi). Eppure, lo sport diverte, reca gioia, suscita interesse, coinvolge; rappresenta un potenziale umano di enorme importanza, perché lo sport è un gioco straordinario, e noi umani amiamo giocare più di molte altre cose; e se sappiamo farlo, stiamo bene insieme. Gli atleti, quelli che vincono e quelli che perdono, al di là del risultato, sanno donare momenti brevi, fugaci, transitori, fragili di felicità. Ma è una felicità autentica, sentita e vissuta da chiunque assista a questo gioco straordinario. Possiamo esaltarci per una vittoria o provare dispiacere per una sconfitta, ma se vogliamo imparare qualcosa dobbiamo andare alla matrice di ogni vittoria, che è la preparazione, l’impegno profuso con la mente, il corpo e l’anima. In una parola: l’allenamento. E’ l’allenamento che dura anni e anni il vero regista occulto di qualunque vittoria. Ma come ogni regista, quando è il momento della Vittoria, sa mettersi da parte, nascondersi dietro le quinte e dire tra sé e sé: “Ecco a voi il film, godetevelo!”
Ci vediamo a settembre a Brescia e online, dal 6 all’8 settembre al Seminario di approfondimento. Quest’anno sarà sui paradigmi.
Vi aspetto!
Coach Umanista e fondatore del Coaching Umanistico