Il tennista che si arrabbiava perché pensava di essere pigro
di Stefano Massari Coach Partner della Scuola Italiana di Life & Corporate Coaching
Andre Agassi e Marcos Baghdatis stanno per giocare quello che potrebbe essere (ma non sarà) l’ultimo incontro della carriera dell’americano. Attraversano il lungo corridoio che porta al campo di gioco. Sulle pareti, le foto dei vincitori degli US Open. “Navratilova. Lend. McEnroe. Stefanie. Io. I ritratti sono alti un metro e disposti a intervalli regolari – troppo regolari. Sono come gli alberi in un nuovo quartiere suburbano. Mi dico: smettila di notare cose come queste (in corsivo nell’originale, ndr). È ora di restringere i tuoi pensieri come questo tunnel restringe la tua visione”[i].
Possiamo definire l’attenzione come un processo attraverso il quale la mente seleziona alcune informazioni per usarle efficacemente, mentre ne esclude molte altre[ii]. L’attenzione, come qualunque altra facoltà, può essere allenata. A volte basta un solo cambio della routine di allenamento per avere conseguenze a catena. Bisogna solo identificare la variazione specifica per la persona che si sta allenando.
Lucio è un tennista di 17 anni, classifica 4.2. Sguardo aperto, simpatico, fluido e insieme goffo nei movimenti come solo gli adolescenti sanno essere. Gioca a tennis soprattutto perché gli piace allenarsi con gli altri. La parte dell’allenamento che preferisce è quella sul campo, mentre soffre la preparazione fisica, la palestra. Dà grande importanza alle relazioni con i compagni e con il maestro. Ha una particolare intelligenza e sensibilità sia nel cogliere i mutamenti del proprio stato d’animo, sia nel comprendere quelli altrui. Ha un bel gioco piatto, pulito. Quando riesce a tirare forte è a suo agio e gioca bene. Lo è molto meno se deve variare la tattica, alzare la palla, usare le rotazioni, correre. A scuola se la cava, ha un rendimento regolare. A giugno lo aspetta l’esame di maturità. Mentre lo ascolto, durante i nostri primi incontri, noto che vi è come uno iato tra quel sorriso così morbido e il problema che Lucio mi porta e porta in campo con sé. La rabbia.
Mi racconta di partite giocate bene, condotte in vantaggio per lunghi tratti e poi perse per colpa di due o tre errori. Perché se commette tre sbagli uno di seguito all’altro si infuria: inizia a scagliare le palle contro la rete di recinzione, poi tocca alla racchetta, delle volte se la prende persino con la sedia sulla quale, al cambio campo, dovrebbe sedersi per riposare. Basta poco e perde prima la testa e poi, immancabilmente, la partita. Fuori dal campo torna tranquillo.
Il maestro di Lucio, che mi ha coinvolto in questo lavoro, dice che al ragazzo basta nulla per innervosirsi, anche in allenamento. Il campo pesante, le palline sgonfie, una giornata ventosa, sono tutti motivi per lamentarsi e distrarsi. In partita, dice il maestro, è come se Lucio non riuscisse a vedere cosa succede dall’altra parte della rete. Quasi non si accorge se il suo avversario è più forte di dritto o di rovescio. È troppo concentrato su di sé. La rabbia lo porta a non prestare attenzione ad altro.
Eppure la conosce bene, la sua rabbia: ne riconosce i primi sintomi, la sente arrivare. Però non sa come frenarla ed evitarne la furia distruttiva. Vista la sua intelligenza intrapersonale[iii], all’inizio decide di agire cercando di riconoscere la rabbia prima che esploda e di controllarla prendendo tempo tra uno scambio e l’altro. Se serve lui, prima di iniziare lo scambio fa rotolare la pallina verso la rete di fondo e la va a recuperare respirando profondamente, per calmarsi. Se serve l’avversario, si ferma per sistemare le corde della racchetta. Ai cambi di campo, cerca di portare l’attenzione sulla tattica, le cose da fare. Nessuno di questi piani risulta decisivo.
Fino a quando un giorno, durante una sessione, mi dice una cosa che mi colpisce, perché suona strana. Sono pigro, dice. Quest’affermazione non corrisponde all’idea che ho di lui, alle cose che mi ha raccontato fino a quel momento, a quello che mi dice il suo maestro. Dunque gli chiedo di raccontarmi come trascorre le sue giornate. Mi risponde che si alza la mattina alle 7.00, va a scuola, poi torna a casa, pranza, va ad allenarsi. Torna a casa verso le 17.00. Studia fino a cena. Cena. Poi continua a studiare finché non va a dormire.
Gli chiedo se questo succede tutti i giorni. Mi risponde di sì. Tutti i giorni tranne domenica, giorno in cui però studia e si avvantaggia per la settimana. Il sabato non va a scuola, ma la madre lo sveglia presto perché deve pulire casa. Sabato mattina studia. Sabato pomeriggio si allena.
Tu non sei pigro, gli dico. Secondo me tu sei stanco.
Questa riflessione lo colpisce. Mi pare quasi che arretri sulla sedia. Inizia a confrontarsi con quello che possiamo definire un cambio di paradigma. Il paradigma è uno dei concetti più complessi del coaching. Consiste nella teoria della vita di una persona, nel modello attraverso cui la persona interpreta la realtà[iv]. Lucio si arrabbiava tanto con se stesso perché credeva di sbagliare per colpa della pigrizia. Il fatto di vedersi per la prima volta come un ragazzo stanco e non pigro cambia molte cose. Il suo vecchio paradigma, sono pigro dunque sbaglio, diventa: sono stanco, dunque sbaglio.
Il riposo ha una grandissima importanza nel processo di allenamento. Il principio della relazione ottimale tra carico e recupero prevede infatti che, dopo il carico, si produca una diminuzione transitoria della capacità di prestazione e che nel recupero si verifichi una sua risalita a un livello superiore rispetto a quello di partenza. Tale stato è definito Supercompensazione. Nel coaching, la fase di recupero ha una stretta relazione con la cura di sé. Si tratta di una potenzialità di specie, determinante per lo sviluppo di tutte le altre potenzialità. Implica non soltanto il riposo fisico, ma anche attività che determinano emozioni positive e permettono il riaccumulo delle energie mentali[v]. Il recupero è dunque parte integrante dell’allenamento e possiamo incrementarlo solo modificando le routine dalle quali è composto, mantenendo intatti i suoi scopi (giocare, allenarsi, vincere). La routine va modificata aumentando il tempo di recupero e/o riducendo il tempo di allenamento.
Lucio decide di riposare di più. Questo, per lui, significa in primo luogo dormire il sabato mattina. Visto che la madre non può dedicarsi alla casa in un altro momento, Lucio il venerdì sera va a dormire a casa del nonno. Poi parla con il maestro ed ottiene una certa flessibilità. Nei giorni in cui non è riuscito a dormire perché ha dovuto studiare, o non va all’allenamento, oppure concorda un allenamento più leggero. Quando non va ad allenarsi di solito usa il tempo per studiare o, se è troppo stanco, per rilassarsi, guardare la tv, vedere gli amici.
Il cambiamento che avviene è molto graduale, all’inizio appena percepibile. Ma con il tempo diventa evidente. L’attenzione di Lucio, prima assorbita dalla rabbia, può finalmente dirigersi all’esterno. Lucio smette di essere un tennista orientato al sé ed inizia ad orientarsi al compito. Le palle sgonfie non gli danno più fastidio, perché adesso può dedicare loro un’attenzione che prima era altrove. Sa che sono sgonfie, sa che non rimbalzano, sa che deve colpirle in un certo modo.
Cambia il suo modo di giocare in gara. Inizia a considerare gli avversari, a guardare quello che accade nella metà campo opposta alla sua. Nell’arco di otto mesi vince due tornei e la sua classifica migliora: passa 3.2. Il suo maestro, figura chiave in questo percorso, mi racconta una delle due finali e mi dice che Lucio l’ha vinta perché ha capito che il vento dava più fastidio al suo avversario che a lui. Così il processo iniziato mesi prima giunge a termine. Da giocatore soggiogato dalla rabbia e concentrato solo su si sé, Lucio è diventato un tennista più sereno e dunque in grado di gestire il suo focus attentivo a seconda delle situazioni. Un tennista capace di guardare al di là della rete, di interpretare le caratteristiche dell’avversario, di capire che il vento, un tempo suo nemico, può giocare al suo fianco e aiutarlo a vincere. Ora Lucio è un giocatore migliore. Perché dorme di più.
NOTE
[i] Agassi 2009 pag. 25
[ii] Tale processo, analizzato per la prima volta dagli psicologi della Gestalt, mette in atto una strategia che si può definire chi-vince-acchiappa-tutto. Se nel vedere un oggetto alcune parti vengono analizzate, le altre parti vengono totalmente ignorate (Stanchieri dispensa 6 del Manuale di Ultimate Coaching).
Tra i diversi modelli che descrivono gli stili attentivi, quello di Nideffer è da molti ritenuto uno dei più utili sotto il profilo pratico, visto che è facilmente comprensibile ed utilizzabile da allenatori ed atleti. Niedeffer divide i processi attentivi secondo due variabili: la direzione (esterna o interna) e la portata (ampia o ristretta). Combinando queste variabili, avremo quattro diversi tipi di dimensioni attentive: esterna ed ampia, esterna e ristretta, interna ed ampia, interna e ristretta (Cei 1998 pag. 188 e seguenti).
Il focus esterno ed ampio è, per esempio, quello che può adottare un tennista che si trova a giocare in una giornata ventosa. Dovrà non solo leggere i movimenti dell’avversario, ma nel considerare la traiettoria della palla dovrà tener presente anche la direzione, l’intensità e la continuità del vento e fare il tutto con una certa velocità e precisione nel corso dello scambio.
Il focus esterno e ristretto è, viceversa, quello del tennista che vuole servire una seconda palla in una zona del campo ben individuata, per giocare ad esempio sul rovescio dell’avversario. L’atleta dovrà concentrarsi intensamente sul compito e cercare di evitare elementi di distrazione che potrebbero provenire dall’ambiente ed influenzare negativamente il suo gesto.
Il focus interno ed ampio è quello che caratterizza ad esempio la pianificazione di una gara, il fatto di evocare sensazioni ed emozioni facilitanti rispetto alla prestazione, o anche la consapevolezza del proprio stato fisico generale, dunque maggiore o minore stanchezza, a un certo punto della partita.
Infine, il focus interno e ristretto viene utilizzato per concentrarsi su un particolare movimento, ad esempio la posizione della testa della racchetta alla fine di un colpo, oppure quella dei piedi sul terreno di gioco prima di colpire la palla.
Posto che ogni sport prevede richieste attentive specifiche, l’abilità di utilizzare uno stile piuttosto che l’altro e quella di passare da uno stile all’altro nel corso della stessa partita, dipendono dal livello di allenamento e dal grado di attivazione dell’atleta.
Un grado di attivazione troppo basso porta di solito a difficoltà nell’orientare l’attenzione. L’atleta sembra annoiato, apatico, demotivato, appunto distratto. La sua attenzione tende a non focalizzarsi su nulla in particolare e dunque nemmeno sulle informazioni utili allo svolgimento del compito.
D’altra parte, uno stress eccessivo porta l’atleta a restringere troppo il focus attentivo. Questo accade perché, come abbiamo detto, l’attenzione è un processo selettivo. Se l’atleta è particolarmente sotto pressione ed entra in stato di stress, la sua attenzione, anziché rivolgersi alle informazioni utili a svolgere il proprio compito, sarà attratta dalle sensazioni provocate dallo stress stesso e dunque dal respiro corto e affannoso, dalle contrazioni dello stomaco, dal battito cardiaco accelerato e così via. Insomma, uno stato di eccessiva attivazione riduce la flessibilità attentiva dell’atleta e induce un focus attentivo interno e ristretto, dove però l’attenzione non è focalizzata su un movimento specifico o un’informazione rilevante rispetto al compito, bensì sul proprio stato emotivo e le sue manifestazioni corporee.
Non è un caso che la maggior parte degli atleti professionisti e degli allenatori ritengano che la capacità di regolare il proprio livello di attivazione sia un fattore assolutamente decisivo rispetto alla prestazione.
[iii] Stanchieri 2012 pag 239
[iv] Stanchieri dispensa 4 del Manuale di Ultimate Coaching
[v] Stanchieri dispensa “Il coaching e la scienza dello sport” pag. 11