(Recensione di Happycracy di Illouz E. e Cabanas E., 2019, Codice Editore).
Il saggio di Cabanas e Illouz è una critica alla Psicologia Positiva e al Coaching, rei di aver posto la ricerca della felicità al centro della ricerca scientifica o dell’intervento pratico. Il fine di tale alleanza sarebbe quello di normalizzare le coscienze, affermare il potere neoliberista, rendere lavoratori, soldati e cittadini più obbedienti. La Psicologia Positiva avrebbe sfruttato il Coaching per diffondersi, essendo questo un’industria mondiale che supera i 2 miliardi di dollari; il Coaching si sarebbe avvalso della Psicologia Positiva per avere ulteriori credenziali scientifiche. I due sociologi, che certamente hanno studiato a fondo la materia, sanno che Coaching e Psicologia Positiva sono due campi diversi. Il primo è una metodologia di intervento, fondata sul concetto di allenamento delle risorse e obiettivi di sviluppo. Il secondo è una branca di analisi e di evidenze scientifiche. Combinandosi, Coaching e Psicologia positiva esalterebbero i “fattori soggettivi e individuali a scapito di quelli sociali, economici, culturali, politici o comunque più oggettivi” e alimenterebbero “l’individualismo egocentrico e possessivo che predomina nelle moderne società capitalistiche” (pp. 55-58). In estrema sintesi, Illouz e Cabenas contestano alla Psicologia Positiva la sua ragion d’essere: offrire un contributo psicologico alla ricerca della felicità. In alternativa, affermano: “la conoscenza e la giustizia, e non la felicità, sono e saranno sempre lo scopo morale e rivoluzionario della nostra vita” (p. 171).
Felicità, conoscenza e giustizia corrispondono a tre valori diversi: la felicità appartiene al bene, la conoscenza al vero, la giustizia al giusto. Escludere dallo scopo morale (rivoluzionario??), la ricerca del bene è fuorviante e pericoloso. Un altro sociologo, Mauro Magatti, nel suo “Non avere paura di cadere” (Mondadori, 2019), afferma categorico: “la sfida è quella di ripensare la libertà senza prendere la scorciatoia (??!!) del riferirla a qualcosa di estrinseco, come ad esempio, il bene” (p. 33). Ma mettendo da parte il bene, la libertà può diventare la libertà di uccidere, la conoscenza scientifica può indirizzarsi verso scopi bellici e la giustizia può riaffermare la legge del taglione. Al contrario, mettendo la ricerca del bene come matrice valoriale, la conoscenza verifica la veridicità del bene e la giustizia mette ciascuno nelle condizioni di ricercare il suo bene in armonia con il bene altrui. Dopo il secolo delle ideologie totalitarie (che affermavano che il collettivo era superiore all’individuo) e il fracasso dei movimenti “anti” (per cui era sufficiente essere contro), la Psicologia Positiva, insieme al Coaching, sono prosperate perché hanno cercato di dare risposte alle persone che affermavano il desiderio di autorealizzazione in termini di felicità. Questo sommovimento culturale non è un prodotto del neoliberismo, ma di un percorso carsico e moltitudinario che nel passato ha visto soprattutto giovani e donne porre la questione di una felicità, ovvero di un bene, che fosse vera e giusta, infrangendo il sistema (dis)valoriale fuoriuscito dalla Seconda guerra mondiale. Come affermava Protagora, “l’essere umano è misura di tutte le cose”, il che oggi significa che qualunque progetto di bene comune non può prescindere dall’individualità.
Ma perché costruire una vita orientata all’autorealizzazione e dunque alla sottrazione dei valori dominanti e all’espressione delle proprie potenzialità, significa ricadere nell’individualismo? Che dire allora del concetto di “società” che non è certo aggregato scelto e libero di esseri umani, ma un insieme di relazioni legate da un sistema politico statuale che ne stabilisce confini e legittimità (i cittadini)? Eliminando la ricerca della felicità come ricerca del bene, i nostri autori rifiutano il piano di ricerca prima ancora dei suoi contenuti e metodi, facendo primeggiare la critica politica sulla costruzione culturale. Certamente la Psicologia Positiva ha i suoi limiti: lo scientismo di cui si ammanta che diventa un vacuo riduzionismo, la reificazione di valori e potenzialità che riprende gli stessi errori della psichiatria, la spiegazione genetica del talento, l’esaltazione delle emozioni a discapito dei sentimenti, l’attenzione ai punti di forza negando le fragilità, il disconoscimento del ruolo della cultura e della coscienza, la matematica come misura della felicità, ecc. ecc.. Così come il Coaching, quando separa l’individuo dalla relazione con il contesto e la performance dalla crescita valoriale, entra esso stesso in vicoli ciechi. Ma questi limiti non possono disconoscere il merito di cercare di affrontare un tema, la felicità, che prima era esclusivo appannaggio degli ideologi e dei filosofi e di affrontarlo sul terreno della vita quotidiana, qui e ora e non dopo la famigerata Ora X. Mi pare ingiusto disconoscere il principale merito della corrente fondata da Seligman: offrire un contributo psicologico allo studio della felicità invece di concentrarsi esclusivamente su psicosi e nevrosi.
Esaltare il ruolo della soggettività rispetto alle condizioni “oggettive” (sociali, economiche o politiche), non significa far finta di niente. L’autorealizzazione è tensione ben diversa dall’adattamento ad un ordine precostituito, semmai se ne sottrae ricercando strade inedite, creative, originali. Ricercare la felicità rende più evidenti gli ostacoli e più motivati ad affrontarli. E’ semmai la “critica sociale” che non ha alcunché di morale “rivoluzionaria” positiva, se non si combina con la proposta di un bene comune, che in quanto tale deve essere anche individuale e relazionale. I “joker” che rappresentano un ribellismo ricolmo di violenza autodistruttiva e nichilista, cinica e risentita, rafforzano le tendenze autoritarie. Il pensiero critico che rinuncia alla sua potenza affermativa e costruttiva rimane semplicemente sul terreno dell’“avversario” e se ne prende cura invece di scalzarlo.
L’umanesimo nasce dalla ricerca rinnovata del bene ispirato dall’amore per la vita umana, crede nelle potenzialità benefiche essenziali del genere umano, si pone il problema della ricerca della felicità su questa terra e propone strade, metodi e contenuti per cominciare a realizzarla. Per questo definiamo come Scuola il nostro Coaching Umanistico. Il suo orizzonte è la specie umana, il suo possibile riconoscersi in un destino comune di possibile liberazione e realizzazione. Ma il cammino verso questa utopia nasce da prefigurazioni che investono concreti individui, relazioni e comunità e verifica le proprie ipotesi di felicità nella quotidianità del qui e ora, nonostante condizioni avverse e attrezzandosi per affrontarle. In questo orizzonte, l’individualità nel suo realizzarsi con gli altri, per gli altri e grazie agli altri (giacché la dimensione relazionale è insopprimibile nell’essere umano) ritorna a essere misura di tutte le cose. Non è individualismo, è umanesimo benefico, pratico, affermativo e costruttivo, non solo critico. Sociologi, psicologi, coach, economisti, medici, artisti e scienziati che si riconoscono come umanisti dovrebbero confrontarsi, condividere proposte e esperienze, creare orizzonti comuni. Il tempo della critica è trascorso, ci aspetta quello dell’orizzonte costruttivo, in cui le ipotesi di una felicità possibile possano essere verificate e superate, in un dialogo fraterno fra tutti coloro che l’hanno a cuore insieme alla verità e alla giustizia.
Luca Stanchieri